Due detenuti su tre sono malati, tra i 25 mila e i 35 mila sono affetti da Epatite C, in aumento Hiv positivi (6.500) e tubercolosi, almeno un migliaio i detenuti con problemi mentali nelle celle di istituti normali e 1200 in istituti specifici.
Sono questi in sintesi i dati del dossier che il Sindacato Polizia Penitenziaria ha consegnato ieri nell’incontro al Ministero della Salute dedicato ai problemi della sanità penitenziaria.
Nel dettaglio:
“Epatite C priorità. L’Epatite C è tuttora l’infezione maggiormente presente nella popolazione detenuta in Italia anche a causa dell’alta percentuale di tossicodipendenti (un terzo del totale).
Tra il 25 e il 35% dei detenuti nelle carceri italiane sono affetti da epatite C: si tratta di una forbice compresa tra i 25mila e i 35mila detenuti all’anno.
A questi vanno aggiunti 6.500 portatori attivi del virus dell’epatite B.
Molti istituti italiani si stanno attenendo sempre di più alle indicazioni ministeriali, per raggiungere l’obiettivo dell’assenza di nuove infezioni da HCV entro il 2030.
Un altro dato che sta emergendo dagli studi dei medici penitenziari è che tra tutti i detenuti HCV positivi, solo poco più del 50% sono realmente viremici e, quindi, da sottoporre a terapie, rispetto al 70-80% atteso.
Hiv in carcere tra gestione e controllo. Gli Hiv positivi sono circa 5.000.
Secondo dati più aggiornati l’assunzione dei farmaci antiretrovirali ha ridotto in maniera notevole la trasmissione del virus anche in presenza di comportamenti a rischio.
Infatti, la prevalenza di detenuti HIV positivi è discesa dal 8,1% del 2003 al 1,9% attuale.
Questo avviene in modo particolare tra i tossicodipendenti, che rappresentano oltre un terzo della popolazione detenuta, certificato dal 34% di presenti per reati correlati a consumo e spaccio.
Tubercolosi. Risulta poi dai dati ufficiali del Ministero della Giustizia che un terzo della popolazione sia straniera, e, con il collasso di sistemi sanitari esteri, con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale.
Se in Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie sono stati rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera.
Dunque un detenuto su due risulta essere tubercolino positivo e questo sottintende una maggiore circolazione del bacillo tubercolare in questo ambito.
È, quindi, indispensabile effettuare controlli estesi in questa popolazione, perché il rischio che si possano sviluppare dei ceppi multi resistenti è molto alto, con conseguente aumento della letalità nei pazienti in cui la malattia si sviluppa in modo conclamato.
Un caso emblematico è accaduto circa un mese fa a Pavia dove tutti gli agenti di polizia penitenziaria hanno dovuto fare il test di Mantoux per l’infezione della tubercolosi latente, non si trattava di negligenza o incuria, ma di mancanza di tempo del medico di turno troppo oberato di lavoro.
Quindi questo detenuto con tubercolosi attiva prima di essere isolato, ha avuto modo di girare per il carcere col rischio di infettare altre persone.
E questi episodi sono all’ordine del giorno.
PSICHIATRICI. Ci sono almeno un migliaio di detenuti con problemi mentali nelle celle in istituti normali e 1200 in istituti specifici. Il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psicotici, contro l’1% della popolazione generale.
La depressione colpisce il 10% dei reclusi, mentre il 65% convive con un disturbo della personalità.
Significativa, infine, la percentuale di popolazione carceraria che soffre di disturbo da stress post-traumatico, con particolare riferimento ai detenuti migranti: si va dal 4% al 20%.
L’emergenza suicidi in carcere conseguenza quasi sempre di stupro subito.
È questa l’allarmante situazione nelle carceri italiane, dove la malattia mentale è molto più presente di quel che si pensa.
Carenza di personale e burnout. I medici nelle carceri sono sempre meno.
Ogni duecento pazienti detenuti dovrebbe esserci un medico, mentre l’incolumità professionale non è garantita perché esiste un burnout di lavoro insostenibile.
In media i medici fanno 70 visite giornaliere, a cui si aggiungono controlli e dimissioni, quindi c’è una mole di lavoro eccessiva che mette a rischio l’incolumità professionale”.
Da quanto riferisce Sergio Babudieri, Direttore Scientifico SIMSPe:
“Questi dati indicano chiaramente che, nonostante i comportamenti a rischio come lo scambio delle siringhe ed i tatuaggi non siano diminuiti, la circolazione di HIV non avviene più perché assente dal sangue dei positivi in terapia antivirale.
Questi farmaci non sono in grado di eradicare l’infezione ma solo di bloccarla.
Di fatto con l’aderenza alle terapie viene impedita l’infezione di nuovi pazienti”.
Come spiega Enrico Zanalda, presidente della Società italiana di psichiatria (Sip):
“Nelle carceri il problema è molto delicato.
Sicuramente il tasso di disturbi psichici è molto elevato ma è anche legato a disturbi che non hanno influenza sulla commissione del reato.
Legati, piuttosto, alla condizione di detenzione.
E quindi vanno trattati dal personale che assiste i detenuti all’interno del carcere”.
Così Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria S.PP:
“Questi dati sono allarmanti e mettono a rischio la salute dei detenuti e del personale penitenziario.
Il carcere è territorio tra infettivologia e psichiatria con i continui casi di suicidio ed autolesionismo.
Ci associamo all’appello dei medici per un piano straordinario di prevenzione delle malattie infettive che coinvolga il personale in servizio.
Pertanto è indispensabile per queste categorie di detenuti una carcerazione diversa in strutture specifiche che si occupino di curare prima di ogni cosa.
Non si può sottovalutare che la situazione in tutte le carceri è diventata esasperante per il personale che specie per il sistema ‘celle aperte’ non è in grado svolgere il suo lavoro e non ha alcuno strumento di prevenzione per la salute.
È ancor più intollerabile che si parli solo ed esclusivamente di assicurare i LEA (Livelli essenziali di assistenza) ai detenuti escludendo il personale penitenziario, continuando a sottovalutare i rischi.
Inoltre, il caso dello stupro nel carcere di Udine di un detenuto con problemi mentali ad opera di altri detenuti dovrebbe riaccendere l’attenzione su un problema che abbiamo sollevato da troppo tempo sempre inascoltati: solo l’1 per cento delle violenze sessuali in cella viene denunciato, con i più deboli costretti a pagare l’assenza di misure di tutela personale.
È evidente che se fuori dal carcere stenta ad affermarsi la denuncia di violenze sessuali nel carcere questa tendenza è ancora più negativa per una serie di motivazioni che gli esperti hanno più volte indicato, dalla vergogna e paura di chi ha subito la violenza all’assenza di garanzie di tutela per il denunciante.
Un fenomeno rispetto al quale l’Amministrazione Penitenziaria volutamente non è in grado di fornire dati specie se si pensa allo “scambio di sesso” di detenuti tossicodipendenti o alcolisti in cambio di psicofarmaci e alcol”.