Con il passare del tempo proseguono le ricerche degli esperti e continua a restringersi sempre di più la lista delle zone idonee ad ospitare quello che sarà il “deposito unico delle scorie nucleari”.
Per avere un’idea delle dimensioni di questo deposito basti pensare che “sarà grande come un campo di calcio e alto come una palazzina di cinque piani”.
Questa sorta di “sepolcro” dovrà resistere intatto per minimo 300 anni se si vogliono evitare disastri.
Questo perchè dentro la struttura (che secondo i progettisti alla fine dovrebbe assomigliare a una collina d’erba) verranno rinchiusi circa 90.000 metri cubi di rifiuti (sia quelli delle vecchie centrali e sia quelli che si continuano a produrre con medicina, industria e ricerca).
Saranno migliaia e migliaia i fusti metallici che verranno riempiti di materiale radioattivo, inseriti in una gigantesca cassa di cemento armato e poi ricoperti di terra argillosa.
I criteri di selezione dei siti “idonei” sono molto rigidi e purtroppo alcuni territori della Basilicata fanno parte di quello 0,8% di superficie italiana che rischia di diventare la destinazione finale di questa sorta di “cimitero nucleare”.
I tempi per la pubblicazione della Carta delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il maxi deposito (Cnapi) si sono notevolmente allungati.
La relazione finale era attesa per la scorsa estate ma a quanto pare a causa della delicatezza della questione si continua a prendere tempo.
In base alla mappa elaborata dall’ Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (pubblicata nei giorni scorsi da “La Stampa”), ben oltre il 70% della superficie italiana viene esclusa a causa dell’alto indice di sismicità.
Già nel 2003 la zona Jonica fu indicata per decreto dal governo Berlusconi come sede del deposito unico nazionale.
Ma le proteste riuscirono a fermare tutto e il progetto finì nel dimenticatoio.
Purtroppo nel frattempo il problema non si è risolto e anzi continua ad aumentare.
Oggi i rifiuti radioattivi italiani sono in parte custoditi nei vecchi impianti nazionali e in parte sono stati mandati all’estero, ma questa non è una soluzione definitiva.
Il 98% del combustibile è stato spedito nella centrale francese di Le Hague e in quella inglese di Sellafield.
In gergo tecnico questo si chiama riprocessamento: Parigi e Londra lavorano il combustibile italiano per estrarne uranio e plutonio. Un materiale, quest’ultimo, particolarmente ambito dall’industria nucleare.
Ma una volta effettuato questo “processo” i contratti firmati con Francia e Inghilterra prevedono che le scorie tornino nella Penisola entro il 2025. E poi c’è una legge europea che obbliga ogni paese dell’Ue a gestire autonomamente i propri rifiuti nucleari.
Ecco perché lo Stato sarà comunque obbligato a intervenire e quindi in qualche zona d’Italia prima o poi saremo obbligati dalle leggi Europee a costruire questo “maxi-deposito nucleare”.
Di sicuro se la zona Jonica fosse inserita nella lista definitiva in molti sostengono che ci sarebbe una protesta che sarebbe “molto più aspra” di quella del 2003 quando la mobilitazione di tutti i lucani (culminata poi nella grande manifestazione ribattezzata “la marcia dei centomila”) obbligò moralmente e politicamente il Parlamento a cancellare il nome di Scanzano Jonico nella conversione in legge del decreto.