SAN CARLO DI POTENZA: PAZIENTE SALVATO 2 VOLTE IN 18 MESI PUBBLICA LETTERA DI RINGRAZIAMENTO A MEDICI E INFERMIERI!

SAN CARLO DI POTENZA: PAZIENTE SALVATO 2 VOLTE IN 18 MESI PUBBLICA LETTERA DI RINGRAZIAMENTO A MEDICI E INFERMIERI!

 

L’Ospedale San Carlo di Potenza torna a far parlare di se con una storia di buona sanità mediante una lettera aperta scritta da un paziente che, grazie all’impeccabile funzionamento di questa struttura, ha superato la fobia per gli ospedali.

Vi proponiamo, in versione integrale, la lettera scritta da Mariano Paturzo:

“Sarà forse perché ho perduto mio padre poco più che adolescente per una stupida operazione all’intestino in una sala operatoria affollata di medici e senza che nessuno ci comunicasse niente, o forse perché dopo qualche anno mi sottoposi a un intervento di tonsillectomia, il tutto senza anestesia e come si dice ancora oggi “a crudo” che è nata in me una fobia, una paura esagerata che mi ha tenuto lontano dagli ospedali. Il mio malessere sfociava addirittura in tremori o conati di vomito. Lascio immaginare il mio stato quando dovevo recarmi in ospedale per far visita a un parente o a un amico.

Il destino ha voluto che negli ultimi diciotto mesi entrassi per ben due volte in sala operatoria al San Carlo di Potenza. La prima per un’asportazione di calcoli alla colecisti in laparoscopia. Mi feci coraggio e affrontai l’intervento. Al risveglio dall’anestesia riflettevo: non sento dolori, il chirurgo mi ha rassicurato. Mi chiedevo che fine avessero fatto le mie fobie….. il mattino successivo entrano nella stanza due infermiere e il chirurgo. Questo mi visita e mi dice: oggi torni a casa. Le tue paure mettile in soffitta e dimenticale. Ero tranquillo e dopo qualche giorno scrissi un messaggio a lui e alla sua èquipe. Mi telefonò e mi ringraziò delle belle parole. A gennaio di quest’anno una domenica pomeriggio avverto che qualcosa non va al mio torace. Saranno i postumi della bronchite o il fumo di qualche sigaretta in più penso… ma il mio istinto mi dice che il dolore è strano si fa più intenso. Decido di farmi accompagnare in ospedale. Dopo poco entro nel pronto soccorso. Neanche il tempo di misurami la pressione che un medico mi suggerisce di lasciare tutti gli effetti personali e seguirlo. Mi sdraiano su un lettino e dal quel momento due medici si alternano per eseguire raggi elettrocardiogrammi e riempirmi di flebo. Chiedo cosa sia successo e nel rassicurarmi mi comunicano che devo ricoverarmi in Terapia Intensiva. Il ricovero in ospedale rappresenta, per qualunque persona, un momento difficile, di ansia, di paura, di estraneità rispetto al proprio ambiente di vita e di lontananza dalla famiglia, il disagio legato al bisogno insieme ad un impatto difficile con l’organizzazione dei servizi in un contesto in cui debbano prevalere criteri di efficienza e di uso responsabile delle risorse, rischia di accentuarne le sofferenze. Non è stato così. Ho subito avvertito la vicinanza dei medici e degli infermieri. Non un momento solo: rassicuravano e parlavano con tutti i ricoverati nel reparto. Il monitoraggio era continuo.

Ormai le mie paure e le fobie erano davvero in soffitta. Notavo che tutto il personale sanitario usava nei confronti dei ricoverati rispetto e capacità di comunicare. Mi convincevo sempre di più che i pazienti preferiscono medici che siano interessati al proprio lavoro, che li ascoltino con attenzione, che siano aperti al colloquio, che realmente e attivamente si occupino di loro e che siano capaci di guadagnarsi la loro fiducia. Mi hanno operato dopo pochi giorni installando tre bypass al cuore. La capacità dell’èquipe medica di rassicurare e comunicare e ascoltare ha generato tranquillità e distensione. Questa sensazione-convinzione ce la scambiavamo con gli altri pazienti. Non tutti erano lucani. Venivano anche da altre regioni, convinti e certi che l’Ospedale Regionale San Carlo rappresentasse una delle eccellenze del settore in Italia. Intanto sempre più marcate, erano le immagini del vasto stanzone del reparto post operatorio intensivo, dove il tempo sembra non trascorrere per effetto di una luce immutevole: tutto era dominato da una “plancia di comando” ove si avvicendavano capo sala che organizzavano e pianificavano il lavoro di tutti.

Eravamo monitorati e accuditi. Ogni tre quattro ore cambiava il turno e medici ed infermiere sbucavano dal nulla per recarsi a fare il loro lavoro. In questa città sotterranea mi sembrava di rivedere scene del film Metropolis di Fritz Lang. Ogni tanto una voce perentoria esclamava “fuori!”. Era il tecnico di radiologia che eseguiva i raggi al torace ai pazienti. Insomma quasi come su un set cinematografico dove la voce del regista urla “azione!”. Al rientro in reparto mi convincevo giorno dopo giorno che questa nuova comunità di degenti era certamente capace di narrare un motivo di nuova umanità che accomunava tutti rendendoli partecipi delle proprie esistenze. Un contesto per l’èquipe medica e gli infermieri in cui ciascuno porta le proprie competenze e le confronta con quelle dell’altro, senza esclusioni a priori e senza clima di contesa. Le conoscenze cliniche sono assolutamente necessarie, ma non sono di per sé sufficienti a costruire fiducia e di conseguenza a generare speranza; senza fiducia e senza speranza il paziente si trova solo. La fiducia nasce all’interno di una relazione e il medico sembra dover apprendere o riapprendere, in un mondo in trasformazione, la capacità di costruire e di mantenere con il paziente una relazione terapeutica efficace.

Cambiano gli strumenti delle conoscenze, aumentano i progressi delle scienze, ma non può cambiare il concetto di relazione terapeutica, che è, e rimane, la più antica radice della medicina. Queste nicchie di buona sanità, di eccellenze vanno protette e incentivate. Io non so come ma certamente lo saprà chi gestisce un’Azienda. Ho appreso, insieme con gli altri, che a Cardiochirurgia e al reparto UTIC del San Carlo un camice bianco creativo, aperto alle relazioni e all’ascolto, di là dalle ottime capacità e conoscenze professionali sia davvero capace di costruire con il malato un rapporto vero. “Con lo spirito antico del ‘vecchio’ medico condotto, senza nostalgia però rispetto a questa figura, superata dall’evoluzione dei servizi sanitari, ma con la stessa empatia capace di capitalizzare al meglio l’efficacia delle terapie. E’ questo che dà credibilità ai medici ed è un buon capitale che peserà poi su come il malato proseguirà nel suo percorso clinico”.